Un lavoro composito, di grande impegno costruttivo, connota la prima mostra romana di Anna Romanello che, italiana d'origine e di formazione, opera a Parigi.
Malgrado i rapporti con l'Italia non si siano mai allentati, Romanello si è fino ad oggi proposta ad una ribalta internazionale, che da Parigi si sposta verso Francoforte e Londra.
Eccola dunque a confrontarsi con il suo paese natale, quasi a restituire in uno specchio, modificato dal corso delle esperienze, quel che di esso è stato acquisito e filtrato.
I vagabondaggi nel pianeta, e le incursioni in mondi onirici e letterari - sollecitate dalla consuetudine di lavoro e di amicizia con Hayter, - paiono in questa installazione romana dichiarare il loro appoggio figurale costante alla grande stagione dell'informale italiano, di cui l'artista è stata da giovanissima una accorta lettrice.
Vedova per il segno-forma, e Accardi per la combinazione strutturale dei tessuti pittorici, risultano essere esplicitamente i suoi referenti originari sui quali occasionalmente ramificano esperienze schnabelliane o memorie stelliane, in omaggio a quella concezione che considera il nomadismo culturale elemento costitutivo dell'attuale fare artistico.
E se il comporre per ampi spazi e campiture cromatiche si configura come il dato costitutivo del suo lavoro, tuttavia la passione per le carte e per il loro impiego all'interno di vaste commistioni di materiali, ove primeggia la lucentezza del metallo sempre accorpato alla densità del legno o della tela, è un elemento che sta a segnare l'affezione, mai smentita, dell'artista per quell'universo della grafica d'arte in senso lato che il nostro mondo in parte disattende. E segna inoltre il passo con i valori della scrittura, del segno, del segnale, della traccia di memoria.
Ma tutti questi dati concorrono poi a creare una realtà pittorica permeata da una luce diffusa che trattiene toni cromatici aerei e forti impronte d'ombra. Luci mediterranee e ombre metropolitane si alternano nella visione e nella costante mediazione di questa che sono i brillanti sovrapassaggi, le velature, o la proiezione perturbante di una figura ricorrente e ossessiva sugli spazi temperati del respiro cromatico raggiunto e sancito.
L'inquietudine dell'arte a riconferma, ancora una volta, di quella travagliata ricerca interiore che costituisce la profonda ragione dell'opera.
Dal catalogo della mostra “Le muse inquietanti”
Federica di Castro, 1996