Appunti di viaggio.
Conobbi Anna Romanello nel 1990, quando d’accordo con Federica Di Castro, la invitai al Museo Civico di Rende per partecipare ad una mostra al femminile, sulla ricerca artistica delle donne. Il titolo era mutuato da un noto quadro di De Chirico, Le muse inquietanti, ma l’allusione era all’inquietudine della donna d’oggi, di fronte al nuovo ruolo di soggetto culturale.
Gli anni del femminismo avevano insegnato che non esiste un’arte femminile, intesa come categoria a sé stante, con una tipologia ed uno stile. Nature morte e ritratti sentimentali appartenevano ad una cultura d’altri tempi, e rimandavano a hobby per ragazze di buona famiglia. Il femminismo maturo, superata la prima fase più radicale, aveva capito e fatto capire che l’arte non ha genere e l’identità delle donne si doveva difendere non in contrapposizione ad un’arte maschilista, ma nel rivendicare le pari opportunità e all’interno di processi d’integrazione critica.
La Romanello, come tanti artisti-donna di quella rassegna, si presentò all’appuntamento di palazzo Zagarese con una proposta articolata, per metà installazione e per metà performance. Lei era stata scelta nella pattuglia delle poche calabresi in mezzo alle più rappresentative artiste italiane. C’erano Tomaso Binga, Mirella Bentivoglio,Valentina Berardinone, Elisa Montessori, Carmen Gloria Morales, nomi storici dell’arte del secondo Novecento, ma anche le più giovani emergenti Annie Ratti, Cloti Ricciardi ed, appunto, Anna Romanello.
Lasciata la Calabria, Anna si era formata ed aveva vissuto fra Napoli, Roma e Parigi. La Calabria se l’era tuttavia portata dentro, non negli stereotipi di una calabresità di facciata, ma trasfigurata in una suggestione, in un’essenza della memoria, nei tratti di un luogo interiore. Questa Calabria poetica riviveva nella sua produzione artistica attraverso un’evocazione dell’espressività primordiale, della ritualità severa di popoli antichi, della gestualità sobria ma pregnante del teatro greco.
Sulle coste ioniche calabresi dove è nata la Romanello, si estendeva nell’antichità la Magna Grecia, terra di miti epici e di riti tradizionali. A questi due elementi, in qualche modo, si improntano l’intimo sentire e l’atteggiamento culturale di questa artista, che già in quell’evento rendese dimostrò di saper conciliare la magia del passato con l’attrazione del futuro, in equilibrio fra il vagheggiare e il fare, fra voglia di stare e desiderio di andare. Una sedia, l’anta di una porta scarabocchiata e lunghe strisce di carta scritta con ideogrammi avvolti attorno al corpo erano gli elementi di quella installazione-performance, che esprimeva tutta la dialettica esistenziale della Romanello.
La sosta e il viaggio sono i termini di una contrapposizione funzionale, non solo perché sono gli elementi di un fenomeno dinamico - le tappe di un percorso, appunto – ma perché in ogni viaggio c’è sempre la ricerca di un luogo interiore, originario, ideale, perduto e mai raggiungibile.
I luoghi fisici e reali sono perciò i luoghi di una proiezione ovvero i luoghi di una rievocazione in cui cercare cose nuove che somiglino a quelle delle memoria.
In questo prodigioso gioco di corrispondenze, allora, l’opera della Romanello assume l’aspetto di un racconto infinito, intrecciato di immagini e di segni, aggrovigliato di gesti e suggestioni, scavato nei solchi dei graffiti e nelle profondità dell’inconscio, inciso nella mente come nella matrice di un’acquaforte. Il quadro è un mixing di generi che trae dalla complessità linguistica un’efficacia espressiva; gli elementi pittorici, fotografici, calcografici o d’altro tipo concorrono ad una ricostruzione di quell’unità artistica che è la vera interprete della globalità della vita.
Dalle scritte murali ai reportage fotografici, dai collages pubblicitari ai graffiti metropolitani, dal dripping alla pittura a macchie, dall’incisione con il bulino a quella con il trapano, dalla poesia visiva al libro d’artista, dal supporto di zinco a quello in pvc, Anna Romanello usa un ampio repertorio di linguaggi, di tecniche e materiali, che ne fanno un’artista curiosa e incline ad ogni sperimentazione.
I lavori degli ultimi anni hanno raggiunto la sintesi necessaria ad una comunicazione diretta, ben articolata nell’utilizzo degli spazi e nella distribuzione delle immagini di varia provenienza. Gli elementi fotografici costituiscono un utile supporto alla gestualità di una pittura prorompente.
Così come aveva già fatto con le Promenades romaines (2001) quando era intervenuta con delle sovrapitture su fotografie di Chistian Walter a rivisitare alcuni luoghi di Roma, anche nei più recenti cicli di Tentative d’évasion e di Percorsi d’infanzia, l’artista rimaneggia fotografie sue e di Gaetano Gianzi, rielaborando i luoghi descritti, con rapide pennellate di colore, graffi, strappi, cancellature.
L’operazione compiuta è di tipo pop, come aveva già fatto Mimmo Rotella con gli effaçages e i décollages sovradipinti di graffiti, ma se nell’artista nouveauréaliste l’accostamento degli interventi era più libero, in Romanello viene tentato un rapporto sinestetico fra il gesto aggiunto e l’immagine sottostante. Sono riprese alcune direttrici della composizione, ovvero alcuni elementi strutturali e linee d’energia che fanno pensare agli autoritratti fotografici violentemente ritoccati e negati di Arnulf Rainer; ma anche in questo caso gli esiti sono diversi, in quanto nella nostra autrice la pittura sovrapposta afferma ed esalta i soggetti ritratti.
Come si diceva all’inizio, Anna Romanello va in giro per il mondo cercando corrispondenze e trovando nei reportage fotopittorici i segni della propria identità. Gli appunti di viaggio costituiscono un simmetrico tour immaginifico in cui vengono ritrovate assonanze “d’amorosi sensi”.
Sotto i colpi del pennello o del bulino le mesas di Monument Valley, le vetrine dei negozi della Route 66, i grattacieli di New York diventano la stessa cosa del rigattiere di Pesaro o dei vicoli di Corigliano. Sono immagini di un universo unificato dall’azione reinterpretativa della pittura. L’icona di Marilyn Monroe, il barbiere italoamericano, la Fontana di Trevi, il ritratto di Anna, costituiscono un’antropologia visiva che alimenta una ricerca artistica metafora della vita.
Un viaggio che è in qualche modo un eterno ritorno. Per trovare se stessi sull’uscio di casa o per le strade del mondo.