Fotografie e memorie alchemiche.
Anna Romanello è un’artista molto accreditata, e da anni, nel campo dell’incisione, in cui eccelle anche per propensione alla contaminazione tra tecniche e materie e per una capacità di portare proprio questo linguaggio visivo fuori dai canoni più tradizionali per aprirlo a una sperimentazione continua. Per affinare il suo lavoro in questo senso è stata fondamentale la vicinanza di alcuni maestri e tra questi di Stanley William Hayter, a Parigi, dove il noto pittore e incisore inglese aveva fondato, nel 1927, lo straordinario studio di ricerca artistica e incisoria Atelier 17. Anna, che aveva intrapreso una formazione all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e successivamente all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts a Parigi, e all’inizio del suo percorso realizzava, tra le arti, maggiormente la pittura, scopre di essere quasi istintivamente portata anche per la commistione di pratiche artistiche, che poi insegnerà pure come docente di Grafica d’Arte, in varie Accademie di Belle Arti in Italia e tra queste quella di Roma. Da subito, dunque, si è orientata verso questa mescolanza ma partendo dalla xilografia. E’ noto: questa è una tecnica in rilievo che prevede l’asportazione dalla superficie di una tavoletta di legno nelle porzioni che non costituiscono il disegno da stampare. Le matrici sono quindi inchiostrate e si usano per eseguire, su carta o su seta, più esemplari dello stesso soggetto tramite pressatura con il torchio. Su queste opere Anna interveniva con riquadrature pittoriche astratte, pennellate, velature, sovrapposizioni differenti, strappi e una sequenza di segni quasi calligrafici,appartenenti a una scrittura fantastica, gestuale, ideale. V’era già una sorprendente ricchezza estetica e poetica, in questa sua grammatica, che aveva a che fare con una volontà di dare vita e testare la TRASMUTAZIONE – quasi di alchemica memoria – ma afferente alla disciplina dell’arte piuttosto che alla Natura o a ragionamenti spirituali; accompagna ma poi domina quel CAOS INERTE DELLA MATERIA, di trattazione informale storico, per andare verso quel modello indipendente che l’arte erige riverberando infiniti riferimenti intellettivi, culturali, percettivi, visivi. Tutto questo Anna lo dimostra con l’incisione in tutte le sue declinazioni, comprendendo l’acquaforte su rame o mediante la tecnica Goetz, ovvero al carborundum – che dà risultati esteticamente molto pittorici – e, abbiamo detto, imponendovi interventi misti e, nel tempo, inserendo in questo idioma già eterogeneo, anche la fotografia, come vedremo. Le sue modalità incisorie e manipolatorie sono state sin dall’inizio, e lo sono tutt’ora, applicate anche ai suoi libri d’artista: oggetti magnifici, pieni di dettagli e raffinatezze stilistiche, con l’unione della carta a lastre di metallo scalfite, a plexiglass, legno e a fogli di varia tipologia, costruiti sia in forma di volumi rilegati sia nelle fogge più accattivanti. In mostra c’è un rilevante campionario di questa produzione che si avvale di testi o stralci ad hoc, o con legami letterari storici – Dumas o Verlene, ad esempio – sempre palesandosi attraverso una stratificazione di tecniche e immagini. Così, abbiamo acqueforti e collage, e segni di varia natura chiusi in un box trasparente, di polimetilmetacrilato (AUX GRANDES); oppure una simile scatola che conserva altri fogli in acquaforte a colori simultanei e lastra di rame (PERES APENTEURS); e ancora, vediamo una custodia in legno che reca dentro acqueforti e collage e melting-pot (ORIZZONTI); altro plexiglass che serba acqueforti e lastra di rame incisa (FUGITIVES EFFLUVES), aggiungendo collage e altro (JE SUIS RESTÈ LONGTEMPS); ed ecco diverse incisioni, al carburundum (ERA NOTTE NOTTE NOTTE), e xilografie con interventi plurimi per una serie di libri a soffietto (RICORRENZE ROMANE e DEUX PLUS UN, con Christophe Comentale) che in alcuni casi, su carta giapponese, impiegano collage fotografico (LIBRO DI SÉ). L’uso di una base fotografica, pure in altri libri (tra i quali CHAQUE ALPHABET A SON HISTOIRE; L’ISOLA NASCOSTA; ERRARE) e in alcune prime serie di opere tra le quali LONDON REFLECTIONS, seguite dalle opere ispirate del Museo della Marina di Caprera, alla Maddalena (poi succedute da altri cicli tra i quali SIBARI – I LUOGHI DELLA MEMORIA, del 2017, alcune prove riuscitissime di ATTRAVERSARE IL TEMPO alle Case del Celio, 2018, e di LUCI NELLA CITTÀ, 2018), entra nel suo processo creativo. Vi accede con una forza innovativa che non rivoluziona la sua solidità poetica e compositiva ma la sposta un po’ in avanti, in quel territorio dell’avventurosa esplorazione che si è visto spesso nella Storia dell’Arte. Molti artisti in passato hanno unito elementi di origini eterogenee diversi in un unico campo pittorico, tirandovi dentro collage, tecniche miste e la Fotografia: George Grosz, Raoul Hausmann, Hannah Höch, solo per citarne alcuni; o protagonisti del New Dada e della Pop Art: si pensi a Peter Blake, Richard Hamilton, il Robert Rauschenberg
dei COMBINE-PAINTING; e lo hanno fatto sperimentatori anni Sessanta e Settanta in Italia. Anche Anna Romanello agisce con un simile criterio. Intacca la presunta PUREZZA della Fotografia e ne fa uno dei numerosi elementi e lessici da usare per il suo fraseggio. A differenza di tanta altra materia usata, la Fotografia è un prelievo oggettivo della realtà; ha la capacità di portare più direttamente un’immagine del mondo nello spazio PITTORICO e di farlo attraverso un meccanismo di continui rimandi tra informazioni, tra nessi, che ne originano, quindi, sempre di nuovi, come in una sorta di SPECCHIO infinito che alterna e via via associa fino a ren-dere indistinte “VERITÀ FOTOGRAFICA” e “L’IMMAGINAZIONE” (come bene scrisse Diego Mormorio in un testo su Anna e il suo impiego della Fotografia). Insomma: queste sue opere adottano “IMMAGINI CHE SI FONDANO SU DELLE FOTOGRAFIE E FOTOGRAFIE CHE SI FONDONO CON LA PITTURA” (cit.) L’artista rende tutto questo una sinfonia che sana le contrapposizioni o, quantomeno, le affianca in un rapporto di non belligeranza. Non è esclusa una qualche drammaticità in questa sua inter/azione, dato che avviene con un CORPO A CORPO con la pittura, anche quando si tratta di segno, disegno, incisione, strappo; insomma, una dose di pathos nel suo lavoro c’è e resta: l’ESPRESSIONISMO GESTUALE, assai COMBATTENTE, di Emilio Vedova non le è del tutto estraneo, e nemmeno un AZIONISMO ASTRATTO che prevede l’impiego di molta fisicità per dipingere, marcare e graffiare opere spesso di grandi dimensioni, che posiziona anche a terra quando vi interviene; e nemmeno Alberto Burri è sconosciuto alla sua pratica polimaterica, che – abbiamo detto – comprende la cesura, la scalfittura, la lacerazione, l’affiancamento di materie diverse e, quindi, una ricerca di ALTRA FORMA. Ciò sottolineato, il risultato è sorprendentemente armonico. Abbiamo visto come Anna riesca a muoversi indifferentemente tra esercizio pittorico, talvolta con l’installazione – non va dimenticata! – e abitualmente con l’incisione e sempre più con l’introduzione della fotografia, e come ogni trattamento anche netto di tecniche e materie riesca a determinare una inconsueta eufonia. Allora: anche il PASSATO e il PRESENTE, come concetti e come reali presenze, nelle sue opere convivono in un muto accordo e talvolta in una corrispondenza di AMOROSI SENSI: molte di quelle stimolate dal meraviglioso sito archeologico capitolino delle Case Romane del Celio, poi ivi esposti in una bella mostra AD HOC, lo dimostrano. In esse sembra che l’artista tenti “UNA SUBLIMAZIONE DEL PRESENTE CON IL LINGUAGGIO PROBLEMATICO DELL’ARTE CONTEMPORANEA, CHE ALL’INCROCIO COL PASSATO AGGIUNGE UNA PREMUROSA RIANIMAZIONE”, come scrisse Tonino Sicoli per il catalogo della mostra I luoghi della memoria. Quei lavori sono nati da un sopralluogo e da scatti fotografici di quei luoghi e reperti, ma quell’antichità è stata riportata una prima volta nel presente proprio da quelle foto; questa attualizzazione è stata quindi ribadita quando quelle immagini sono state stampate su PVC o su acetati su cui Anna Romanello è intervenuta dipingendo, incidendo, graffiando da par suo. Nulla si perde: la Storia e le tante narrazioni connesse – sembra suggerirci Anna – sono materia viva e una conferma che “SIAMO CIÒ CHE SAREMO NON MENO DI CIÒ CHE SIAMO STATI” ma interpretando la visione disincantata e caustica – pessimista – di Oscar Wilde, autore della citazione, come qualcosa di positivo, di luminoso. Ecco: la luce. La luce che è sempre richiamata dalla sua pittura e dalle sue incisioni, grazie alla vividezza dei colori, a squarci chiaroscurali, alle velature, alla carta a vista, è elemento portante della Fotografia e dunque ritorna, ribadita, così, nelle opere che se ne avvalgono. Non paga, la Romanello ACCENDE, letteralmente, alcuni suoi lavori, che dota di led a creare teche ARDENTI e light-box. Così, ecco ATTRAVERSARE IL TEMPO, il citato ciclo nato intorno e dentro le Case Romane, e l’altra serie già indicata, LUCI NELLA CITTÀ, connesso a Roma, costruito con foto su acetato e plexiglass inciso a punta elettrica, foglio dopo foglio, a creare una profondità data dalla successione di piani, e con una illuminazione che ne fa risaltare forma e linguaggio. Sono opere sul filo della teatralità ma senza compiacimento scenografico e quell’eccesso che la nostra artista rifugge.
Fa, piuttosto, pensare a quella FIAMMELLA “NELL’OSCURITÀ DEL MERO ESSERE” a cui faceva riferimento Jung pensando all’unico “SCOPO DELL’ESISTENZA UMANA” e che potremmo assegnare anche all’arte. A tutta l’arte di Anna Romanello; cioè: è, questo, un riferimento che ben si applica a tutta la sua produzione, da quella dei suoi esordi a questa esposta in questa mostra e certamente a quella di là da venire.