Anna Romanello, Riflessi di viaggio.
Abbiamo incontrato Anna Romanello nel suo atelier romano, un’accogliente piccola fabbrica di immagini, piena di macchinari e strumenti che immediatamente rapiscono il nostro sguardo. La ascoltiamo mentre li illustra con cura e precisione, permettendoci di entrare nel vivo del lavorio della creazione. Artigiana dell’immagine, l’artista ci mostra la genesi di ogni piccolo segno e la scelta meticolosa della carta utilizzata in ogni fase del lavoro. Ci prende per mano e ci conduce in uno spazio magico e vitale, permettendoci di comprenderele parole scritte da Diego Mormorio riguardo le opere della sua ultima mostra, London Reflections: “In esse trovo semplicità e rigore. Guardandole mi sembra di camminare su una corda tesa tra la verità fotografica e l’immaginazione”. Così realtà e fantasia si alleano per trasportarci nei luoghi immortalati da Anna Romanello. Immaginiamo questo spazio fisico e concettuale come meta ultima di ogni viaggio, luogo in cui i ricordi e i segni del movimento si trasformano in opera, attraverso un processo di lenta sedimentazione del ricordo.
Anna Romanello è nata a Corigliano Calabro. Dopo aver studiato all’Accademia di Brera a Milano si sposta in Francia dove è allieva del celebre Stanley William Hayter, da cui apprende le tecniche di incisione che poi svilupperà nel suo lavoro e che renderà note in Italia. I suoi lavori sono stati esposti a Parigi, alla Bibliothèque Nationale e al Centre Pompidou. Ha poi girato il mondo, passando per Vancouver e Vienna, Praga e Bratislava, fino ad approdare a Taipei in Taiwan, per poi tornare in Italia, tra Milano, Firenze, Roma e infine Corigliano, dove ha recentemente portato la mostra London Reflections (a Roma a giugno presso il Centro Documentazione Ricerca Artistica Contemporanea Luigi di Sarro).
La genesi dei lavori di Anna Romanello è nel mondo. L’artista si serve della macchina fotografica per catturare attimi di un ritmo incessante, il movimento di chi abita la realtà con sguardo sempre vivo e curioso, pronto a coglierne le sfumature e a cristallizzarne la bellezza. Così il viaggio si fa gesto artistico, dando luce a opere “meticce” che, grazie a una lunga elaborazione posteriore, sono un mélange di foto, pittura e incisione, figlie di tante scuole e di tanti luoghi.
Le creazioni partono sempre da un luogo preciso, reale, per giungere a un luogo altro, dislocato e astratto. Un viaggio che dall’esterno raggiunge un interno. In questo senso le immagini del mondo si fanno “riflesso” di un vissuto, dando voce a un moto interiore. Quel riflesso fotografato sulla vetrina rappresenta di per sé un cortocircuito: il dentro e il fuori sono mostrati contemporaneamente, quiete e movimento fanno tutt’uno, regalando un istante di armonia.
Ma l’impressione fotografica è solamente un punto di partenza: le frazioni della realtà rapite dall’occhio dell’artista sono infatti poi elaborate attraverso tecniche varie: xilografia con matrici in legno e incisioni calcografiche con matrici in metallo. Segni che caricano le immagini di forza e significato. La fotografia diventa così una tela su cui lavorare con strumenti diversi. Alla stregua, potremmo dire, del processo di realizzazione di un film in cui è il lavoro posteriore alle riprese, quel momento in cui la realtà esterna è immortalata dalla pellicola, che costruisce l’opera dandole il suo senso ultimo: il montaggio.
Osservando le opere vediamo come la fotografia ha fermato un movimento, un suono - la frenesia della città - il riflesso di una vetrina destinato a mutare di lì a breve con il cambiamento della luce. E quello stesso attimo, sfuggente forse proprio nel tentativo di esser colto, è ricercato e fatto emergere nel lavoro successivo. L’artista ci mostra che l’immagine fotografica è insufficiente a rappresentare la vita di una città. Quello che ci suggerisce è che forse l’unico modo per coglierla e comprenderla è guardarla attraverso un medium, scrutarla nei vetri che immobili la popolano e la guardano scorrere, così, in un riflesso, in quello stesso e unico modo in cui Perseo poté guardare la Gorgone Medusa per poterla sconfiggere.
In London Reflections le immagini fotografiche, stampate su carta di cotone, sono poi arricchite da incisioni e successivamente da interventi pittorici realizzati su carta giapponese. C’è una stratificazione di piani, di memoria, un’elaborazione dell’esperienza che è insita ed esplicitata nel lavoro dell’artista.
È infatti il lavoro di incisione e pittura successivo a restituire all’opera rumore e vita, ad aggiungervi una “colonna sonora visiva”. L’esperienza appare così globale, completa. L’attimo si carica così consapevolmente di significato, attraverso la stratificazione di materiali e tecniche, e si mostra attraverso un’esplosione di colori.
Davanti alle opere di Anna Romanello ci troviamo ad essere degli archeologi, così come Freud descrive il lavoro dell’analista nel suo saggio “Costruzioni nell’analisi” (1937); scaviamo nei frammenti, nei segni e nelle pennellate e, ricomponendoli, troviamo nelle immagini possibilità di significato sempre nuove. Stanley William Hayter paragona i lavori della sua allieva ai palinsesti dell’antichità, tavole scritte e riscritte al punto da aver perso ogni possibilità comunicativa e che oggi guardiamo e interpretiamo come oggetti d’arte. Scrive: “Le immagini di Anna Romanello sono chiaramente palinsesti di un ordine analogo, i quali associano talvolta tra di loro scritture e segni di una ovvietà apparente senza cercare mai però di ripetere il messaggio verbale del poeta. Il loro commento irrazionale riesce a sconfiggere la logica” (Parigi, aprile 1984). Così la decostruzione di un’immagine porta, necessariamente, il fruitore alla costruzione di un senso privato. Un senso che permette la ricostruzione di un luogo che è contemporaneamente esterno ed interno, vissuto attraverso lo sguardo poliedrico dell’artista.
Viene in mente il gioco di parole usato dall’antropologo James Clifford nel suo libro “Strade” (in inglese Routes, Travel and Translation in the Late Twentieth Century, 1997, pubblicato in Italia nel 1999 da Bollati Boringhieri) in cui routes (strade, appunto) e roots (radici) si trovano a coincidere, suggerendo che nella contemporaneità l’essere umano può comprendersi solo se si riconosce come essere in movimento, poiché è definito dal movimento stesso. Citando le parole dell’autore: “Ma che cosa accadrebbe, cominciai a domandarmi, se il viaggio, liberato dai suoi lacci, venisse visto come il complesso, pervasivo spettro dell'esperienza umana? Pratiche di spostamento potrebbero allora apparire come costitutive dei significati culturali, e non già un loro mero trasferimento e allargamento”. Il viaggio dell’artista, inteso sia come spostamento fisico che come sperimentazione tecnica, costituisce infatti origine e meta ultima di ogni sua opera.
Così, amalgamando colori e culture, viaggiando in luoghi remoti resi improvvisamente raggiungibili, può capitare infatti che ci si ritrovi a Parigi ad ammirare le fontane di Roma (nella mostra del 2001 dedicata alle “Promenades romaines”), trasportati dai colori e dalle belle forme create dalla mano dell’artista Anna Romanello.
Lulù Cancrini