Tiziana Musi

On the Bum
Moving from city to city
I always had two pairs of
Shoes
My looking-for-work
Shoes and my working
Shoes

Il vagabondo 
Girando di città in città
Avevo sempre due paia di 
Scarpe,
le scarpe per cercare lavoro e
le scarpe da lavoro

Charles Bukowsky, Bone Palace Ballet 1997 

La nostra è un’epoca che ha fatto del viaggio un’icona laica: viaggio come fuga, viaggio come spostamento reale, viaggio come percorso virtuale, viaggio come emozione interiore, viaggio come migrazione dolorosa. Forse è la natura stessa dell’uomo a fondarsi sullo spostamento e l’essere nomade è in qualche modo la condizione privilegiata dell’artista, che ci ricorda come il movimento non è solo fisico ma anche ripiegamento intimo, psichico, dove l’opera d’arte diventa meta ultima di un processo dinamico. E allora la domanda di Chatwin, grande viaggiatore: perché gli uomini vanno girovagando invece di starsene fermi? (Bruce Chatwin, Anatomia dell’Irrequietezza, Milano, 1996) può trovare un suo senso nell’opera di Anna Romanello, che del viaggio ha fatto l’elemento qualificante della sua ricerca. 

Bruce Chatwin ha costruito la propria biografia sull’insofferenza alla stanzialità: il primo capitolo dell’Anatomia dell’Irrequietezza, dal titolo significativo Horreur du domicile rivendica l’urgenza di muoversi in luoghi aperti, di spostarsi, di fuoriuscire da quella insofferenza al restare, già proclamata da Seneca quando dichiarava la necessità di risolvere la propria angoscia esistenziale prima di affrontare un viaggio. Anche Anna Romanello, nomade da sempre, (è nata a Corigliano in Calabria si sposta e vive fin da giovanissima fra Milano, Parigi e Roma) costruisce la sua ricerca artistica proprio su questa strana irrequietezza del proprio Io. Il viaggio di Anna, però, non è insofferenza, non è doloroso distacco o allontanamento necessario: è curiosità di esplorare le infinite possibilità del reale, scandagliare senza la consueta retorica gli anfratti remoti dei luoghi, sperimentando al contempo tecniche diverse. Il suo essere nomade significa anche nomadismo di tecniche. Alle prime sperimentazioni pittoriche della fine degli anni ’70, dove emergono i suoi debiti nei confronti dell’Informale, si contrappongono le ricerche grafiche iniziate a Parigi nell’Atelier 17 di S.W. Hayter, che le ha consentito di rielaborare un linguaggio artistico assolutamente originale e innovativo, ancora oggi in continua sperimentazione. 

E il suo lavoro negli ultimi anni si è concentrato in particolare sull’osservazione di luoghi, sottratti alla loro forma storica e codificata. La prima volta che mi sono imbattuta nelle opere di Anna Romanello ho avuto l’impressione di entrare in una short-story di Raymond Carver: come nei racconti dello scrittore americano, così nelle sue opere si percepisce un desiderio di isolare un particolare, come davanti ad un televisore o sul tavolo da cucina. In entrambi, le scene, quasi dei nonsense letterari, sono condensate su una lastra da vivisezione dove l’intensità emotiva nasce dalla scoperta che qualcosa accade in isolamento totale, senza un legame apparente con ciò che lo circonda.

Anche in questa ultima mostra Tentative d’evasion Anna esce dai confini prestabiliti: leggiamo nomi che echeggiano e alludono a ricordi sedimentati e condivisi: New York, Soho, la Route 66, l’Arizona, la Monument Valley. Ma dove sono realmente? Quali particolari sono stati vivisezionati? Su quali tracce dobbiamo lavorare per riconoscere il luogo? Ecco il punto ri-conoscere significa conoscere di nuovo qualcosa che è già noto. E Anna Romanello ci offre nuovi strumenti per iniziare con lei una diversa individuazione del luogo, di cui ci appropriamo così come l’artista ce lo consente. Le grandi lastre di zinco mostrano alcune tracce apparentemente insignificanti. In Barber o in Bäst il luogo fisico è scomparso: Soho il quartiere di New York si trasforma in un nome, ciò che conta è quel particolare, quel cassetto, quel muro graffiato, quel manifesto, quel volto così noto (Marilyn Monroe) ormai consumato dalla pubblicità. Anna ha camminato in quei luoghi a lungo, ha scattato decine di fotografie prima di trovare quella esatta, ha preso un particolare e l’ha trasformato. All’operazione di sottrazione del particolare dal contesto corrisponde nel fare artistico un processo di accumulazione. Il luogo è così trasformato in un non-luogo, riconsegnato a noi attraverso una sorta di rispecchiamento. Ed è su questo doppio binario che si costruisce il lavoro di Anna Romanello negli ultimi anni.

Come quelle due paia di scarpe che Bukowsky porta con sé, anche Anna ha due scarpe, due occhi, due mani. Con uno viaggia, osserva la realtà, ferma l’impressione attraverso decine di fotografie per cogliere un particolare che ancora non conosce, ma che sa esistere, la traccia di un vissuto, un ricordo che altri non possono cogliere.  Con l’altro occhio elimina il non-necessario, cancella il superfluo, rimane solo un elemento visivo delle centinaia che componevano le immagini precedenti Così al processo di eliminazione succede quello di accumulazione artistica: l’immagine rielaborata al computer e stampata su lastra viene incisa con il bulino o con punta elettrica, quasi cancellata, ricoperta di cera e di foto strappate, ridipinta con tecnica quasi miniaturistica. Le grandi lastre di zinco ci permettono di entrare all’interno del luogo, di riflettere la nostra esperienza: la condivisione del luogo non è nella sua storicizzazione ma nel suo essere svuotato di significati noti e successivamente reinterpretato.

Il viaggio di Anna non è un viaggio epico, non è eroico: è un camminare incessante per cogliere quel genius loci che solo alcuni riescono ad individuare, dove il quotidiano aspira a farsi epica: una sorta di epifania della normalità. Come a Pietracuta, piccolo borgo nel riminese, dove le sedie accatastate ci aprono un mondo sull’abbandono, la perdita, la povertà. Ci viene in aiuto la letteratura: Tonino Guerra, scrittore, artista, sceneggiatore della Val Marecchia e amico di Federico Fellini, ricorda in una poesia proprio il paese di Pietracuta, anche lui evidenziando il senso di abbandono: 

Un goccio d'acqua

Tutte le volte che da Pennabilli
vado a Santarcangelo in corriera,
dopo Pietracuta c'è una stazione
abbandonata da cinquant'anni
senza più le rotaie davanti.

 Tonino Guerra, Milano, 1992

I viaggi di Anna sono periferie, delle città come dell’anima. Anche Corigliano, paese natale dell’artista, ne esce trasfigurato. In Percorsi d’infanzia le suggestioni architettoniche fotografate con straordinaria intuizione da Gaetano Gianzi diventano scenari di ricordi del passato, vivi nel presente: il portale della chiesa sembra scomparire dalla furia pittorica che ne trasfigura l’immagine fotografica.

Le opere presenti in mostra dalle lastre di zinco ai piccoli dittici su vinile, alle bande su carta giapponese, evidenziano tutte una tecnica artistica attenta e raffinata, dove il colore costituisce sicuramente un comune denominatore: un colore violento, acceso, imperioso che assume di volta in volta caratteri diversi. Se nelle lastre il colore rivela un’ambigua determinazione, per cui si passa dalla meticolosità pittorica di alcuni particolari alla casualità informale del dripping, nei dittici su vinile diventa gesto violentemente espressivo: ampie campiture cromatiche vengono incise, graffiate, nuovamente ridipinte, il colore si trasforma in materia viva, il segno in scrittura.

Il viaggio di Anna Romanello è quindi il tentativo di coniugare esperienze diverse: il suo allontanamento dall’origine è soprattutto uno sprofondare sentimentale nella realtà che ha di fronte e il colore si trasforma nello strumento principale di appropriazione.

Testi critici