Incisioni di luce.
La materia si smaterializza, l’immagine si fa luce. Così Anna Romanello affronta il passaggio linguistico fra le tecniche e le poetiche, fra l’ambito semantico e quello manuale. Il campo dell’arte ha sempre rinvigorito l’albero della conoscenza, che immerge le radici nel sapere portandolo in superficie attraverso la fronda del fare. In una valigia da viaggio intellettuale vengono trasportate esperienze, storie, ricordi, cimeli di un vissuto senza tempo, tracciato nello spazio. Stanno a posare le figure di un laboratorio fuggente, fatto di pieghe nell’anima e di tatuaggi sul corpo delle opere suggestionate dal cammino emotivo e dall’incidenza del pensiero. La pratica artistica ha un vantaggio sulla registrazione della realtà, nel senso che va oltre l’apparenza e scopre l’essenza, frugando nella profondità del senso e scavando nell’inconscio. Ecco Romanello che coglie il papiro di segni verbo-visuali, geroglifici moderni e pre-linguistici, pattern foto-grafici, che traducono la realtà visitata in simboli di storia e creatività, di un’antropologia femminile dolce e sensibile. I fogli variegati di segni diventano emblemi di una piattaforma cognitiva, che inventa territori estesi e frontiere abbattibili, apice di un processo a ritroso disvelatore di matrici polivalenti. Lastre come superfici riflesse, che restituiscono visioni ghiacciate d’appunti, di una peculiarità polare, di opposti affini e sullo stesso asse. Pittura e scrittura, figure e alfabeti, realismo e aniconicità si arrotolano su un vaso di Pandora dei linguaggi, fra cartacei pensieri e getti di colori segnati a strisce, colature di pigmenti, intense macchie di un pandemonio espressivo. Fragili performances, libri creativi, che scrivono e cantano immagini di un’arte d’insieme, esuberante e intrusiva. C’è una distorsione dei generi, piegati l’uno all’altro, carte spiegazzate, frammenti di fantasie, scorie di discipline diverse tenute insieme dalla multiforme identità dell’arte, che avvolge ogni cosa. Basi di un ciclo d’azzardo, gustato sul ciglio di una valle incantata, là dove sul fondo si cimenta un torrente di acque correnti, come un arcobaleno disteso per terra. Romanello attraversa campi e territori di un evo contemporaneo, con opere incise come solchi in cui seminare i segni che fioriscono. La semiotica esplode nell’arte totale, unificata nei generi, che si integrano fra di loro puntando sulla sovranità di un’immagine espedita e onnicomprensiva. Come un puzzle dalle diverse conformazioni e toni l’opera si struttura in un insieme di parti, che danno senso al tutto. L’ambito in cui vengono generate le opere è un atelier senza barriere, che dà spazio ad un fare complesso, con una oggettualità trans-moderna in pieno recupero di tecniche antiche e nuove tecnologie. La pittura e l’incisione si combinano con l’arte performativa e concettuale, introducendo il collage e usando la fotografia, creando libri d’artista, con carte graffiate e con lastre di zinco e di rame. La luce bianca punta su una visibilità in penombra; raggi radenti colorano assemblaggi di ready-made e petits objets, fragili teche di cose-pensieri. Partendo dalle incisioni astratte di William Hayter, suo maestro, Romanello recupera la mixed art di Fluxus e del Nouveau Rèalisme, della ricerca verbo-visiva incline a scritte, foto, newmedia. Segnate dai dripping alla Pollock o dalle striature alla Dorazio, queste opere pitto-grafico-foto-gestuali sono oggettiglobali, materico-luminosi sulla scia di Kossuth e di Calzolari. Incidere è un atto di scoperta e di fissaggio del proprio io, sottile ma profondo. Un mondo traslucido emerge dal sottofondo opaco di una terra antica, fatta di tracce, di reperti, di scavi. Un sentore antropologico e un’escursione nell’archeologia fanno della ricerca di Romanello una rivisitazione malinconica, che recupera istanze di una ritualità dell’arte sempre viva. Il viaggio nel passato o lungo i tragitti di una geografia metaforica e accattivante, si sbilancia in luoghi multipli e visibili al cuore, in territori senza corpo. Immateriale è il cenno di una visione imbrunita, salvata dalla memoria e ritrovata in un presente rivoltato, che scopre la sua forza nelle bellezze della storia. Le avventure di ieri ballano sul palcoscenico di oggi, salvando ogni fantasia. I racconti scivolano sul metallo, sulla carta, sul vetro e nell’aria, custodite dentro un riquadro o una bacheca. La fotografia non è un reportage ma un’incisione di luce, che non solo impressiona la lastra fotografica ma scava dentro la coscienza e la memoria, fissandone l’umana fattezza. Un album di particolari assopiti, di valichi sui confini del mondo e nei meandri della storia personale e collettiva. Fra uomini e vicende di un racconto atemporale ma dilatato nell’eterno presente dell’arte. Come una ferita sulla pelle, il gesto creativo estrae l’opera da un grezzo palinsesto, affidandola ad un nascosto giocoliere del linguaggio. La creatività è un timing, un battito duraturo, un collasso dell’effimero. A punta di bulino e di sguardo incisivo Romanello sfiora la superficie dell’ignoto, lo rapisce e lo inverte in un messaggio forte e intrigante.